giovedì 27 novembre 2025

New York 2025

Guardavo una parodia su Instagram: undici settembre, attentato alle torri gemelle, migliaia di persone in piazza contro l'islam.... Qualche anno dopo; duemilaventicinque, stessa città, stessa folla, ma adesso tutti a festeggiare il primo sindaco musulmano della metropoli.



Il video vorrebbe forse evidenziare una contraddizione, la memoria corta della gente, la mancanza di rispetto per la storia; l'asservimento di un popolo all'ideologia. Tutto vero, tutto valido in qualsiasi altro luogo del mondo, ma non lì, a New York, Stati Uniti. Lì, sbaglia bersaglio, riuscendo per eterogenesi dei fini, a illustrare bene quale sia la vera forza (sopita) dell'America: cioè la capacità di assimilare, di digerire tutto, ricavarne energia, e rendere ogni cosa americana. Era la stessa forza di Roma.



La vera debolezza dell'America di questi anni, semmai è stata proprio il contrario, ovvero la paura di essere respinta, quella propensione a farsi piccina, per timore di sopraffare, di soffocare anche le più improbabili minoranze, finendo così per generare enclavi, non più cittadini. Questo timore ha lasciato troppo spazio all'altro modello di convivenza, che per un'alchimia conosciuta solo dentro gli imperi, coesiste contemporaneamente all'assimilazione: il multiculturalismo (ovvero integrazione senza assimilazione). Per giunta, pretendendo che anche le province, soprattutto quelle europee, le più servili, adottassero tale modello quale strumento funzionale alla globalizzazione. 


Naturalmente causando ancora più disastri che in patria, non disponendo questi stati di sufficiente "forza imperiale" per reggere tale compito. Esempio lampante di tutto ciò è la Gran Bretagna, che nel tentativo di scimmiottare il suo passato, va perdendo la sua identità nel sogno vano di assimilare forze ormai troppo soverchianti per una piccola isola quale in effetti è.


Personalmente questo nuovo sindaco di New York mi sta antipatico: probabilmente un idiota tenuto in piedi dalla propaganda. Gli stessi slogan, le stesse promesse da cui abbiamo imparato a diffidare già ai tempi di Obama. Dubito che persino coloro che lo hanno spinto, abbiano capito fino in fondo ciò che facevano, probabilmente in ossequio ai tempi volevano solo proporre un candidato polarizzante in sfregio a Trump. Ma nonostante tutto, il fatto che sia stato eletto mi pare un segno di vitalità per gli Stati Uniti. 



venerdì 21 novembre 2025

Vita nei boschi

Sto seguendo a tempo perso la storia di quei due genitori inglesi che vivono dentro i boschi dell'Abruzzo, a cui si vuole revocare la custodia dei figli perché secondo gli assistenti sociali non conducono una vita idonea a garantire ai minori una corretta crescita.

Per caso, mi è capitato sottomano un post del ministro Salvini, che col tempismo che lo contraddistingue ha lanciato un meme, che dice pressappoco così: perché gli assistenti sociali invece di occuparsi di questa famiglia, non vanno a vedere in che condizioni vivono i bambini nei campi rom? 

Tralasciando che essendo Salvini membro del governo in carica, certi quesiti, invece che sui social, dovrebbe porli ai ministri competenti suoi colleghi. In realtà questa domanda è a mio parere meno banale di quanto sembri, perché al netto del populismo di cui l'ha caricata Salvini, può condurci a riflessioni interessanti. Dunque proviamo a domandarcelo anche noi: perché lo stato interviene qui in modo così diretto, mentre altrove chiude un occhio, anche davanti a situazioni di più grave degrado?

Secondo me per il semplice fatto che, seppur con qualche impegno, questa famiglia rappresenta un modello di vita alternativo, veramente percorribile da una discreta fetta di popolazione, mentre lo stile di vita, per esempio degli zingari, con tutto il rispetto, no.

Questa storia mette in crisi il modello efficientistico dell'esistenza votata alla produttività, anche personale, che la nostra società ha fatto proprio. Perciò non basta che simili condizioni di vita appaiano scomode e faticose quali sono. Perché a differenza di altre realtà, restano comunque condizioni tutto sommato dignitose: da quello che si apprende, i genitori in questione hanno un certo capitale economico e sono provvisti di buona cultura, anche l'abitazione descritta da alcuni, come fatiscente, in realtà pare essere dotata di pannelli solari e di altri strumenti moderni che la rendono autosufficiente. Insomma un modello di vita diverso, certamente duro, ma difficilmente definibile degradato.

Adesso, dopo il clamore mediatico suscitato, il messaggio che sta passando è che certe scelte non sono praticabili, in quanto le uniche alternative che la società può tollerare al modello dominante sono o vivere nel degrado ai limiti della legalità, oppure condurre una vita da eccentrico, in solitaria. Figura quest'ultima, addirittura utile, per dare l'illusione che esistono alternative al modello standard. Ma una famiglia intera con tanto di figli e animali al seguito, per giunta all'apparenza felici, proprio no, è una cosa troppo destabilizzante.

Dunque la società, così come un po' tutti i sistemi organizzati, cerca di salvaguardarsi, infischiandosene delle condizioni dei bimbi veramente ai margini e accanendosi contro la famigliola inglese. Che forse riuscirà a vincere la sua causa e alla fine troverà un accordo. Ma solo come eccezione, una concessione che la società gli dona come atto di generosità, non di diritto.


lunedì 17 novembre 2025

Giovani

Stiamo lasciando il mondo a generazioni radicalmente diverse dalle precedenti. Non voglio impuntarmi sul fatto che siano peggiori. Restano comunque portatori di una visione aliena, di cui faccio fatica a comprendere le logiche oltre l'immediato. Questo non capire mi rende inquieto sul futuro. Non è questione di invecchiare. Nelle leve precedenti,  ognuno seguiva proprie vie. Le generazioni passate magari non capivano e perciò contestavano queste vie.  Ma grossomodo gli obiettivi erano i medesimi: progresso sociale, felicità, benessere. Quantomeno per sé medesimi e i propri cari. 

Leggevo proprio adesso i commenti sotto l'articolo dell'ennesimo allarme: i giovani non fanno più figli. La maggior parte dei commenti incolpava la scarsità di denaro.  Anche se le condizioni generali sono realmente peggiorate e la stabilità di un tempo nel bene come nel male, diventa sempre più una chimera. In fondo, lo sappiamo: ciò è solo il pretesto di chi non vuole guardarsi dentro e cerca una giustificazione esterna: è colpa di...  

In verità continuiamo a vivere in uno dei periodi con i più alti tassi di benessere diffuso che la storia ricordi. La Grecia classica, Roma, il Rinascimento, erano periodi di profonda miseria se paragonati alla nostra decadenza, di diverse misure di grandezza, per giunta.

Alla fine, però, leggo un commento più meditato: i giovani hanno smesso di fare figli perché sono più responsabili delle precedenti generazioni, motivo per cui  sanno quale responsabilità e impegno comporta. 

Poveri ragazzi disgraziati: questo vi hanno trasmesso i vostri padri, solo la fatica, solo l'impegno di continuare la vita. Case piene di benessere, ma prive della gioia di condividere, fosse anche un torsolo di mela per ricevere un sorriso. 

Eppure, nonostante allevati come fardelli, lo stesso viziati, al punto da non consentirgli di crescere.  Estranei all'idea di mettere in discussione il mondo così come fatto loro intravedere. Immuni contro la vecchia caparbietà dei giovani di provare a stravolgerlo prendendosene sulle spalle le responsabilità.

Così disabituati all'incertezza del vivere, da pretendere stabiliti standard, anche per commettere il più basilare gesto d'amore.


Allora eccoli a giustificare la ritrosia a impegnarsi, come se fosse un atto d'altruismo. Negare il futuro a chi spetta di diritto per risparmiare loro le fatiche del vivere.


Nichilismo come amore.

lunedì 10 novembre 2025

Eterno ritornò



Leggevo oggi, la notizia che forse il cosiddetto big crush, la contrazione dell'universo fino a concentrarsi in uno stato di densità e temperatura estremamente elevate, è più probabile di quanto si credeva. Se questa probabilità fosse reale, in un universo squisitamente materiale, praticamente l'intero cosmo sarebbe una specie di polmone che si dilata e si contrae ciclicamente. 

Una pacchia per tutti i fautori dell'eterno ritorno. Per curiosità ho provato a chiedere a varie intelligenze artificiali di calcolarmi in un tempo infinito, quanti cicli sarebbero occorsi per tornare allo stato corrente. La risposta è stata che non erano in grado, le combinazioni sono così tante, che anche in un tempo infinito, rimane estremamente improbabile che la nostra attuale combinazione si sia già verificata e che si verificherà in seguito. 

Questo in realtà non è un paradosso, le condizioni che hanno portato l'universo al suo stato attuale sono così singolari, che le probabilità che si ripetano sono praticamente nulle. Detto in parole semplici, aspettarsi che in un tempo illimitato il nostro universo possa ripetersi, è un po' come aspettare che in un tempo infinito un cane possa volare; in teoria non si può escludere, ma nel concreto...

E vabbè! Diranno i più scafati, in fin dei conti, non serviva scomodare un'intelligenza artificiale per arrivare a certe conclusioni, bastava un po' di matematica. Ancora meno, mi viene da ribattere, basta un po' di buon senso per ripudiare una vita finta, simile ad un videogioco o a un film da riavvolgere e ripetere per l'occasione.

Sarò malizioso io, ma pare proprio che l'universo, anche nel caso non ci fosse stato nessuno a pensarlo, è come se fosse stato pensato per fare in modo che ogni sua possibile manifestazione resti unica è non replicabile.

Ogni cosa che accade qua giù è unico è irripetibile. Come una gemma 

domenica 9 novembre 2025

Berlino 9 novembre 1989



Conoscevo un tempo un ingegnere. Questo qui mi raccontava che molto per lavoro, un poco per passione, era riuscito nel corso della vita a girare tutti i paesi del mondo. 

Ricordo che una volta gli chiesi quale fosse il posto più bello che avesse visto. Rispose senza esitare: la Nuova Zelanda. Mi spiegò che il resto del mondo pur nella sua diversità aveva delle cose in comune, la Nuova Zelanda invece era proprio diversa. Ma non era la diversita in sé a fargliela preferire. Il fatto, mi disse, e che da ingegnere il resto del mondo gli pareva quasi un prototipo. La nuova Zelanda sembrava la versione finale.

A questo punto gli chiedo anche quale fosse il posto più brutto che avesse visto. Anche qui non ebbe esitazioni: la Germania Est, non per il luogo in sé, mi disse, ma per la gente. Continuò spiegandomi che per lavoro aveva visitato un po' tutti gli stati comunisti, e in alcuni aveva trovato anche  degli aspetti piacevoli, soprattutto nelle zone lontane dalle grandi città, dove era ancora vivo un modo di vivere che da noi era andato perduto. Ma la Germania Est era diversa, la gente gli appariva sfiduciata e apatica, poco interessata a vivere, tirava avanti e basta. Più che un luogo dove vivere la D.D.R. gli parve una specie di purgatorio.

Oggi ricorre l'anniversario della caduta del muro e leggo sui profili social di molti amici interessati a questo genere di cose, una sorta di rimpianto per quel giorno, un "era meglio prima". Effettivamente non posso biasimarli, le motivazioni che adducono sono reali e condivisibili. Quel crollo doveva essere la fine delle minacce di guerra che gravavano sull'Europa, invece pochi anni dopo scoppiarono le violenze nei balcani. Da lì doveva cominciare un era di benessere anche per tutta quella gente, invece molti da questo lato hanno perduto il proprio. 


Però, mi domando, com'è che siamo diventati così, talmente sfiduciati da preferire quel mondo cupo al nostro?

Mi sembra che quel grigiore di cui parlava l'ingegnere, quel disinteresse alla vita, il  tirare avanti apatico, non era quel muro a generarlo, ma piuttosto lo conteneva. No non sto dicendo che è colpa di quelli che stavano dall'altra parte. Mi pare invece che la caduta di quel muro ha fatto ammalare la nostra classe dirigente della stessa malattia di cui soffriva la loro: la cieca tracotanza, la stupida convinzione di essere nel giusto e tanto sarebbe bastato per trascinare il mondo ovunque volessero.

No, io non rimpiango la caduta di quel muro, spero però che crolli presto anche l'altro lato. 

Capitalisti ladri!


La storia del capitalismo statunitense si potrebbe dividere grosso modo in quattro grandi periodi. Il primo periodo è quello dei grandi magnati, conosciuti anche come "i baroni ladri". Uomini spietati spesso venuti su dal nulla, che hanno fondato veri e propri imperi monopolistici. L'epoca dei Rockefeller e dei Carnegie, per intenderci. Padre nobile del tempo considero lo stesso Edison, quanto meno in senso spirituale, geniale inventore, sì, ma che non si tirò indietro nel far incenerire vivo addirittura un elefante, oltre a tante altre povere bestiole, offrendo tali spettacoli a migliaia di persone al solo scopo di screditare la corrente alternata del rivale Tesla.

Il secondo periodo è quello dei manager, dove i grandi industriali non potevano più divorarsi tra di loro o soffocare ogni tipo di concorrenza, ma dovevano competere tra essi e integrarsi con la società circostante. Questo cambiamento di metodi non fu un'illuminazione sulla via di Damasco, ma avvenne perché lo stato si accorse che servivano delle regole. Non si poteva lasciare tutto in mano ai privati,  liberi così di creare monopoli colossali. L'uomo più rappresentativo di questo periodo è senza dubbio Alfred Sloan della General Motors. Ma chi secondo me rappresenta meglio il cambiamento fu Henry Ford, uno che si è fatto da sé, come i grandi magnati della generazione precedente, ma che riuscì a primeggiare non solo grazie a pratiche feroci, ma soprattutto per l'implementazione di una serie di innovazioni tecniche e di procedure. Sistemi, questi, che gli diedero un effettivo vantaggio su tutti gli altri.

Il terzo periodo è quello della grande finanza. Verso la seconda metà degli anni settanta, gli "spiriti animali" del capitalismo, compresero che se volevano continuare ancora a mungere le proprie mucche, il pascolo doveva spostarsi in una zona più redditizia: ovvero a Wall Street. Questa fu l'epoca di nomi leggendari come: Michael Milken o Jack Welch. Ma forse la figura più iconica di tutte è un personaggio immaginario: Gordon Gekko.

Infine il quarto periodo, il nostro, dove tutto, industria, finanza, potere, si sta spostando dal reale al virtuale. Le nuove divinità del capitalismo hanno preso un po' da tutti quelli che li hanno preceduti: sono geniali, spietati, possiedono grandi doti manageriali e spesso non hanno cognomi risonanti. Questo è il tempo dei Gates, degli Jobs, dei Zuckerberg e ancora dei tanti Elon Musk. Un'epoca la nostra, dove si fatica a distinguere il tycoon dal profeta. 


Anche se riconosco che non erano tanto gli uomini che, in ultima analisi, cresciuti nello stesso humus, rispondono alle stesse logiche, ma fu l'epoca ad essere più affascinante. Personalmente la parte che preferisco di questa epopea americana, è la prima, quella dei "robber Baron" dei baroni ladri appunto. Penso però che questo epiteto non sia propriamente adatto, in verità trovo molto più appropriata la traduzione scelta nella versione italiana del libro che racconta il periodo e canonizzò il nomignolo: capitalisti rapaci.

Rapace è molto più appropriato che ladro, perché il ladro ruba per bisogno o avidità. La rapacità è una dote naturale, qualcosa che viene da dentro. Già, perché il fatto è che per me personaggi del genere offrono uno squarcio, un'opportunità di penetrare l'animo umano. Prendete un Carnegie per esempio. Un vero avvoltoio. Non si fece mai scrupolo di sfruttare fino all'osso i suoi sottoposti. Famoso è l'episodio quando per far terminare uno sciopero non ebbe remore a mandare contro i suoi operai gli uomini dell'agenzia Pinkerton, causando decine di morti. 


Eppure quello stesso uomo, una volta andato in pensione, non si risparmiò nell'utilizzare il suo enorme patrimonio per fondare centinaia di istituzioni benemerite. Allora è facile capire che questo ladrocinio, questa rapacità, non è dovuta all'egoismo ma a un modo di vedere il mondo. 

Carnegie è figlio dei nostri tempi. Lui non sente nessuna empatia, nessun dovere verso l'uomo semmai; lui si sente in obbligo verso l'umanità. Anzi, per essere ancora più chirurgici, verso una determinata classe dell'umanità: quella degli individui a cui riteneva di appartenere. Ovvero la stirpe degli uomini geniali. In questo senso Carnegie fu un vero marxista, materialista e credente nel determinismo molto più di Lenin e di chiunque altro. La sua filantropia non serviva per alleviare le sofferenze di tutti, ma per dare l'opportunità a quelli come lui di emergere. Questo solo in realtà gli interessava. Le sue idee di classi sociali non erano definite per censo ma in maniera ancora più scientifica, rispetto allo stesso Marx: per il filosofo tedesco, le classi sono frutto della fortuità, dei rapporti storici; se la classe in cui nasci controlla i mezzi, allora conduci il gioco. Per quelli come Carnegie, è affare di genetica, tutto sta nel fare in modo che chi è nato con i requisiti giusti riesca a emergere. 

E sta qui tutta la differenza tra capitalismo e comunismo. Perché in questo universo ogni estremo a tirarlo troppo, finisce col toccarsi. 

mercoledì 5 novembre 2025

La corsa allo sviluppo



"La vita è l’adattamento continuo di   relazioni interne a relazioni esterne.”
                                 Herbert Spencer





Mi è capitato di leggere l'ennesimo articolo sul tema: "guardate cosa fa la Cina! Guardate come sono avanti! E noi?".
Di fondo, l'allarme lanciato da questo e da altri articoli simili non è campato in aria, ma secondo me sbaglia obiettivo. 

Il fatto è che queste domande (con relative risposte) non dovrebbero essere destinate a indagare il breve periodo. La Cina, per restare in argomento, riflette sul proprio destino già dai tempi della politica delle tre grandi cose.

Al contrario qui da noi, quando si parla di certi temi, pare che le decisioni passate non contino; si fa leva solamente sulla forza del numero, la panacea di tutti i mali. Dunque, essendo piccoli ci vuole più Europa.  Ma la verità è che quando Olivetti morì prematuramente, lasciammo correre. Lo stesso avvenne quando un tragico incidente, poco dopo, si portò via Mario Tchou, il geniale ingegnere italo-cinese, padre nobile dell'informatica italiana. E stiamo parlando degli anni '60! 

Per quanto ci si ricami sopra, e si voglia illudere la gente, certi risultati non si raggiungono solo grazie alla forza del numero come la vulgata blatera. Il punto è che ai tempi pioneristici dell'informatica, l'Italia dette retta a chi, come l'ingegner Valletta e gli amici americani di casa Agnelli consigliarono al Paese di dedicarsi a cose più immediate. Trascurando così un settore che grazie a nomi quali appunto quelli di Olivetti, Tchou e ancora Perotto, Faggin e molti altri, tanto poteva dare alla nazione. Certi risultati, specie nei settori di frontiera, si raggiungono con politiche accorte e con investimenti nel corso dei decenni.  

Coloro che dirigono la discussione adesso dicono che l'economia del paese non è in grado di sopportare gli investimenti che settori come appunto l'informatica richiedono, perciò c'è da mettersi il cuore in pace e lasciare fare all'Europa. Ma questa è una bugia di stampo assolutorio e partigiano. Ciò che sfugge è che questo treno è stato perso molto tempo prima, e proprio come un vero treno, se l'Italia fosse salita nel momento giusto avrebbe potuto trovare un suo cantuccio. 


Chi adesso, a convoglio in corsa, ride perché il paese gli arranca dietro con gambe stanche, è ignorante e in malafede. La colpa non sta nelle gambe del paese, ma nella testa, che ha deciso troppo tardi quando era il momento di metterle in moto.

Guardate il Giappone o la Corea se non siete convinti, partirono da condizioni simili alle nostre, forse anche peggiori, ma provate a dir loro che hanno bisogno di un'Unione Europea per superare le sfide del futuro, vi riderebbero in faccia. Chi nel mondo dell'innovazione auspica investimenti con ritorni immediati o è un truffatore, oppure ha sbagliato mestiere. In realtà non è la ricchezza a generare innovazione, ma esattamente il contrario. 

Così come ancora oggi non è assolutamente vero che bisogna avere risorse miliardarie per l'innovazione tecnologica. In realtà esistono altre strade, come dimostrano il CERN di Ginevra e la Stazione Spaziale Internazionale. Anzi fare consorzi internazionali di questo tipo, invece che unioni politiche, permetterebbe la reperibilità di risorse ancora maggiori, perché consentirebbe l'adesione di realtà statali geograficamente lontane.


Ma allora perché tutti sentenziano che bisogna unirsi, che il paese da solo non può farcela: perché tutta questa enfasi sull'Europa? 


Intanto, come comoda via di fuga: non è il massimo per un politico dover confessare ai propri elettori che il treno è perso e serve rimboccarsi le maniche per prendere il successivo. Molto meglio raccontargli che possiamo prendere un modernissimo aereo. Ma in verità c'è un altro motivo, tutt'altro che secondario: a mio avviso non è un caso che UE e NATO vadano così a braccetto. Entrambe le strutture nascono per rispondere alle stesse esigenze di stabilità e deterrenza perché sia la NATO che l'Europa unita servono principalmente a evitare conflitti interni e reggere l'urto di una guerra nucleare. Non lo discuto: un'Europa unita può vantare una forza economica in grado di tirare fuori cifre importanti e così recuperare il gap con gli altri paesi, e tutta una serie di altri vantaggi. Come del resto ci raccontano ogni giorno televisioni e giornali.  Ma, secondo me, il motivo principale è quello militare. Un paesino come l'Italia, in caso di guerra non si può permettere una bomba atomica su Udine. Uno stato grande quanto l'Europa . GLI STATI GRANDI SERVONO PER ADATTARSI ALLA SCALA DI DISTRUZIONE CHE LE ARMI MODERNE PERMETTONO. 

Per supportare tale tesi, che in tempi di cretineria diffusa, mi pare bene specificare: si tratta di speculazione, naturalmente non ho prove, ma qualche indizio sì. Per cominciare, se guardiamo a l'Europa politica è la sua stessa organizzazione interna a rivelarlo, scegliendo di frammentare le sedi del potere sul territorio. Certo, è anche il risultato dei vari compromessi tra stati, ma quello che viene fuori è una forma di ridondanza strategica. Continuando, io tutti questi investimenti faraonici non li vedo, le industrie nazionali sono ancora tutte concentrate sui business storici. Mentre le spese dell'Unione, nonostante i nomi altisonanti, sono giusto quel minimo necessario per tenere il passo del resto del mondo. Va bene, grandi proclami, ma alla fine cosa di concreto? Il massimo che ho visto è stato convincere qualche azienda ad aprire delle filiali in loco. In tutti i settori di frontiera l'unione mi pare più interessata a normare gli sviluppi dell'alleato americano che proporre dei propri percorsi di sviluppo.


Ma l'indizio più lampante di tutto ciò sta proprio nel cuore stesso d'Europa, mi riferisco alla Svizzera, che, contando almeno fino a ieri sulla secolare neutralità, non ha sentito la necessità di proporzionarsi a una scala di distruzione nucleare: gli basta, come ha fatto, adeguare i propri mezzi all'eventualità di uno scontro ai suoi confini. 


Perché dietro ogni annuncio di progresso, il potere non cerca il futuro, ma cerca di sopravvivere. 

domenica 2 novembre 2025

Nebiosi pomeriggi




Erano belli quei pomeriggi grigi,
Come usciti da un orologio guasto,
Aspettando i passi sulle scale.
Il vociare degli adulti,
Gli effluvi di cucina, la leggerezza.

Il tempo ha fatto razzia di quei giorni:
allora parevano colossi,
adesso soltanto sagome;
Resta, ultimo rifugio, 
un moto di pensiero.