In genere chi si avvicina allo studio del gigante asiatico, resta stupito di una cosa: la sua straordinaria continuità culturale e istituzionale nel corso dei secoli, più di cinquemila anni secondo la tradizione, almeno tremilaseicento secondo gli archeologi. Nessun'altra civiltà può reggerne il confronto; l'Egitto si è avvicinato con i suoi tremilacinquecento anni, ma ormai è morto da millenni, gli ebrei come popolo ci sono ancora, ma la diaspora ne ha stravolto istituzioni e in parte la cultura. La Chiesa Cattolica, l'istituzione più antica ancora esistente, come civiltà cristiana ha "solo" due millenni, quasi tre se gli riconosciamo continuità con la civiltà greco-romana. Comunque lontani dal record cinese. La Cina è un unicum, nessun altro popolo può vantare una persistenza così lunga e una tale coerenza identitaria sullo stesso territorio nucleare.
Anche i cinesi sono consapevoli di questa loro peculiarità, che ha alimentato una visione del mondo fortemente sinocentrica, probabilmente certi stereotipi occidentali di una Cina chiusa su se stessa sono eccessivi; gli storici sanno che in realtà l'impero di mezzo, specie sotto dinastie non Han, aveva una fitta rete di scambi commerciali e in alcuni periodi della sua storia, capitali come Chang'an, che per cosmopolitismo poco avevano da invidiare alla moderna New York. Tuttavia è anche vero che hanno sempre visto il mondo esterno come un qualcosa di barbarico e a ragione, forieri di minacce, non a caso, per i più, il monumento simbolo di questa civiltà è un muro!
Nel corso dei secoli infatti si sono dovuti difendere da numerosi tentativi di invasione. La più famosa, che rischiò di stravolgere il mondo cinese, fu quella mongola nel 1211. Dal canto loro, forse il più serio tentativo di avventurarsi fuori dal loro mondo, fu con l'ammiraglio Zheng He, sotto i Ming, la dinastia che scacciò gli invasori mongoli. Un'impresa straordinaria ma effimera, Zheng riuscí nel corso dei suoi viaggi a instaurare una vasta rete di relazioni con stati tributari, ma alla morte dell'imperatore, visti gli alti costi delle spedizioni, alla fine i cinesi preferirono smantellare la flotta e concentrarsi sui problemi interni.
Un'altra grave minaccia, se possibile ancora più insidiosa dell'invasione mongola, sconvolse la Cina e tutto l'estremo oriente a metà dell'ottocento con l'arrivo dei colonizzatori occidentali prima e l'invasione giapponese qualche decennio dopo. Un periodo triste e buio per la nazione del dragone, che non a caso viene ricordato come il secolo delle umiliazioni. Questo fu un periodo di guerre e sconvolgimenti che la misero a dura prova; le guerre dell'oppio, la rivolta dei boxer, la fine del dominio imperiale, eccetera. Davvero l'orgogliosa Cina, per riuscire a sopravvivere, ha dovuto guardarsi dentro e umiliarsi, ammettendo a sé stessa, che secoli di isolamento l'avevano fatta rimanere indietro, e adesso i popoli barbari in molte cose gli erano superiori.
Il passo successivo è forse conseguenza di questa ammissione, o forse fu l'esempio dell'invasore giapponese. Sta di fatto che appunto, così come il Giappone prima di loro, anche la Cina capì che se volevano sopravvivere come civiltà, prima di tutto occorreva occidentalizzarsi, e per fare ciò la Cina aveva davanti a sé due modelli: quello nazionalista a imitazione dei Giapponesi (che poi con la sconfitta dell'asse, evolverà in un sistema capitalistico all'americana) oppure il modello comunista.
Adesso prima di continuare, c'è da comprendere un concetto fondamentale: la cultura cinese è forgiata dal confucianesimo. Per i cinesi, concetti come l'autodeterminazione dell'individuo e la libertà sono sí valori presenti, ma interpretati in maniera profondamente diversa rispetto all'occidente. Per il cinese, la libertà, non vuole dire autonomia assoluta dell'individuo, ma piuttosto la possibilità di realizzare se stesso all'interno del tessuto sociale. Di conseguenza, questi ideali individuali sono generalmente meno rilevanti e prioritari rispetto al concetto di "armonia sociale", ai doveri verso la propria comunità e all'adempimento dei propri ruoli relazionali. Una visione del mondo, più adattabile, con i dovuti aggiustamenti al sistema comunista, che al nazionalismo o al capitalismo.
Ed è per questo che Mao ha vinto; si dice spesso che Mao riuscí a sbaragliare i nazionalisti, perché i suoi fossero più organizzati e godevano di maggior sostegno popolare, ma chiedetevi, perché?
La risposta è che i comunisti ebbero più sostegno, perché il loro sistema era più comprensibile alla popolazione. Spesso si sente dire che quello cinese non è vero comunismo e in un certo senso è vero; che Mao ne fosse consapevole o meno, il suo comunismo fu un mezzo con cui la Cina riuscí a occidentalizzarsi senza stravolgersi e a traghettare la "cinesita" nel mondo moderno, perché quello che davvero interessava ai cinesi era di rimanere tali. La posta in gioco non era solo la vittoria di un'ideologia, quanto la sopravvivenza della propria identità. Sì, questo processo non è stato indolore: il maoismo ha demolito simboli, istituzioni e pratiche tradizionali. Ha distrutto templi, clan, gerarchie confuciane, migliaia di vite. Ma sotto la superficie, i valori di fondo della cinesita: centralità dello stato, primato della comunità, armonia sociale, sono rimasti. È anche vero che oltre al comunismo la Cina ha adottato molti altri principi dall'occidente, che ancora oggi permangono. Ma il processo è ancora in essere, e più si avvicina alla meta, più si libererà delle sovrastrutture inutili, che non vuole dire buttare le bandiere rosse alle ortiche, ma che quelle bandiere, con buona pace di Mao, saranno tessute con la cara e vecchia seta. Perché ogni ideologia, in Cina, finisce sempre per diventare cinese.
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