domenica 9 novembre 2025

Capitalisti ladri!


La storia del capitalismo statunitense si potrebbe dividere grosso modo in quattro grandi periodi. Il primo periodo è quello dei grandi magnati, conosciuti anche come "i baroni ladri". Uomini spietati spesso venuti su dal nulla, che hanno fondato veri e propri imperi monopolistici. L'epoca dei Rockefeller e dei Carnegie, per intenderci. Padre nobile del tempo considero lo stesso Edison, quanto meno in senso spirituale, geniale inventore, sì, ma che non si tirò indietro nel far incenerire vivo addirittura un elefante, oltre a tante altre povere bestiole, offrendo tali spettacoli a migliaia di persone al solo scopo di screditare la corrente alternata del rivale Tesla.

Il secondo periodo è quello dei manager, dove i grandi industriali non potevano più divorarsi tra di loro o soffocare ogni tipo di concorrenza, ma dovevano competere tra essi e integrarsi con la società circostante. Questo cambiamento di metodi non fu un'illuminazione sulla via di Damasco, ma avvenne perché lo stato si accorse che servivano delle regole. Non si poteva lasciare tutto in mano ai privati,  liberi così di creare monopoli colossali. L'uomo più rappresentativo di questo periodo è senza dubbio Alfred Sloan della General Motors. Ma chi secondo me rappresenta meglio il cambiamento fu Henry Ford, uno che si è fatto da sé, come i grandi magnati della generazione precedente, ma che riuscì a primeggiare non solo grazie a pratiche feroci, ma soprattutto per l'implementazione di una serie di innovazioni tecniche e di procedure. Sistemi, questi, che gli diedero un effettivo vantaggio su tutti gli altri.

Il terzo periodo è quello della grande finanza. Verso la seconda metà degli anni settanta, gli "spiriti animali" del capitalismo, compresero che se volevano continuare ancora a mungere le proprie mucche, il pascolo doveva spostarsi in una zona più redditizia: ovvero a Wall Street. Questa fu l'epoca di nomi leggendari come: Michael Milken o Jack Welch. Ma forse la figura più iconica di tutte è un personaggio immaginario: Gordon Gekko.

Infine il quarto periodo, il nostro, dove tutto, industria, finanza, potere, si sta spostando dal reale al virtuale. Le nuove divinità del capitalismo hanno preso un po' da tutti quelli che li hanno preceduti: sono geniali, spietati, possiedono grandi doti manageriali e spesso non hanno cognomi risonanti. Questo è il tempo dei Gates, degli Jobs, dei Zuckerberg e ancora dei tanti Elon Musk. Un'epoca la nostra, dove si fatica a distinguere il tycoon dal profeta. 


Anche se riconosco che non erano tanto gli uomini che, in ultima analisi, cresciuti nello stesso humus, rispondono alle stesse logiche, ma fu l'epoca ad essere più affascinante. Personalmente la parte che preferisco di questa epopea americana, è la prima, quella dei "robber Baron" dei baroni ladri appunto. Penso però che questo epiteto non sia propriamente adatto, in verità trovo molto più appropriata la traduzione scelta nella versione italiana del libro che racconta il periodo e canonizzò il nomignolo: capitalisti rapaci.

Rapace è molto più appropriato che ladro, perché il ladro ruba per bisogno o avidità. La rapacità è una dote naturale, qualcosa che viene da dentro. Già, perché il fatto è che per me personaggi del genere offrono uno squarcio, un'opportunità di penetrare l'animo umano. Prendete un Carnegie per esempio. Un vero avvoltoio. Non si fece mai scrupolo di sfruttare fino all'osso i suoi sottoposti. Famoso è l'episodio quando per far terminare uno sciopero non ebbe remore a mandare contro i suoi operai gli uomini dell'agenzia Pinkerton, causando decine di morti. 


Eppure quello stesso uomo, una volta andato in pensione, non si risparmiò nell'utilizzare il suo enorme patrimonio per fondare centinaia di istituzioni benemerite. Allora è facile capire che questo ladrocinio, questa rapacità, non è dovuta all'egoismo ma a un modo di vedere il mondo. 

Carnegie è figlio dei nostri tempi. Lui non sente nessuna empatia, nessun dovere verso l'uomo semmai; lui si sente in obbligo verso l'umanità. Anzi, per essere ancora più chirurgici, verso una determinata classe dell'umanità: quella degli individui a cui riteneva di appartenere. Ovvero la stirpe degli uomini geniali. In questo senso Carnegie fu un vero marxista, materialista e credente nel determinismo molto più di Lenin e di chiunque altro. La sua filantropia non serviva per alleviare le sofferenze di tutti, ma per dare l'opportunità a quelli come lui di emergere. Questo solo in realtà gli interessava. Le sue idee di classi sociali non erano definite per censo ma in maniera ancora più scientifica, rispetto allo stesso Marx: per il filosofo tedesco, le classi sono frutto della fortuità, dei rapporti storici; se la classe in cui nasci controlla i mezzi, allora conduci il gioco. Per quelli come Carnegie, è affare di genetica, tutto sta nel fare in modo che chi è nato con i requisiti giusti riesca a emergere. 

E sta qui tutta la differenza tra capitalismo e comunismo. Perché in questo universo ogni estremo a tirarlo troppo, finisce col toccarsi. 

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